Sto da cani – intervista a Emiliano Gucci

Articolo originariamente pubblicato il 25 marzo 2006 su WEMA – Web Magazine e attualmente non più reperibile.

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Nell’asfittico panorama letterario italiano, ogni tanto appare qualche strano essere che sa scrivere, sa raccontare storie, sa far sorridere il lettore e, quando necessario, emozionarlo. Emiliano Gucci appartiene a questa categoria di scrittori. Trentenne fiorentino, ha esordito due anni fa con Donne e topi (Lain) e adesso ha dato alle stampe Sto da cani (Lain) per cui le parole di Valeria Parrella valgono più di una recensione: “Emiliano Gucci ha fatto del dies cotidianus il palcoscenico su cui si intrecciano le nostre vite, senza cedere a qualunquismi. Sto da cani è l’epica dei personaggi minimi: ciascuno di noi è stato ognuno di loro almeno una volta, e quello che non ci è successo, ci succederà. Senza scampo”.

Sto da cani è il tuo secondo romanzo. Per un giovane scrittore è già un miracolo esordire, come ci si sente a riuscire a pubblicare anche una seconda opera?

A me ha fatto un grande effetto. Il secondo romanzo in libreria, intendo. L’ho vissuto con molta emozione. Un’emozione più consapevole, forse, ma sicuramente non meno intensa dell’esordio. C’è da dire che dopo il primo romanzo le prospettive cambiano. Prima, quello della pubblicazione appare un muro insormontabile. Dopo ci si volta indietro e si ha la sensazione di aver superato soltanto un piccolo gradino, mentre davanti c’è tanta strada da fare.

Da “nuovo arrivato”, che mi dici del mondo dell’editoria?

Che è molto meno misterioso, surreale e letterario di come lo immaginavo. Almeno quel piccolo squarcio di mondo che sto conoscendo io. E’ fatto di persone normali, spesso giovani e appassionate alla causa, dove i più grandi sono sempre i più umili, i più abbordabili. E che è un’industria, sicuramente, ma molto particolare, che lascia ancora spazio alle emozioni, alla passione. Dubito che si possa incontrare lo stesso luccichio negli occhi, la stessa fame di scoperte, in industriali che si occupano di lavatrici o materiali da imballaggio.

In Donne e topi, il tuo primo romanzo, è molto forte il tema della precarietà del lavoro. Cosa ne pensi di questa nostra società scolpita sulla Legge 30 (alias Legge Biagi)?

Ne penso male, molto male. Mi viene in mente che il lavoro nobilitava l’uomo, mentre adesso può toglierli la dignità. Invece che arricchire, anche umanamente, sottrae, prosciuga, annichilisce. Mi viene in mente la scritta all’ingresso del campo di sterminio ad Auschwitz: il lavoro rende liberi, e via di filato nei forni crematori. È una provocazione, ma una società fondata sulla precarietà continua ad uccidere le persone: di miseria, di ansia, di follia. È necessaria una brusca inversione di tendenza.

In Sto da cani i temi invece diventano più grandi: la morte, i figli, le separazioni, la malavita. Hai voluto inquadrare la vita con un grandangolo?

Ho raccontato una storia diversa, e soprattutto ho seguito più persone che vivono lo stesso spicchio di mondo, ma in contesti molto differenti. Questo mi ha permesso di toccare più temi, alcuni molto forti, certo, ma non me li sono andati a cercare, sono venuti da sé, seguendo le mosse dei miei personaggi. Per esempio sapevo che si sarebbe parlato d’amore, come sempre, e forse di morte, perché mi andava di cimentarmi in questa nuova impresa. Ma non immaginavo che si sarebbe assistito a un pestaggio, a quelle scene di violenza, alla deriva nera del romanzo. Il punto è che se racconti uomini della strada, della provincia, se racconti un certo tipo di quotidianità, di disperazione, devi mettere in conto tutto e devi essere disponibile, spostando pedine minime, a toccare temi grandi, universali.

Cosa stai leggendo in questo momento?

Devo essere sincero? Molte cose, e la faccenda si fa ardua. In contemporanea: I fratelli Karamazov di Dostoevskij, La gallina volante di Paola Mastrocola, Se siete arrivati fin qua, che è una raccolta di racconti dal carcere di Sollicciano, e pure il manoscritto di un amico, che presto, immagino, diventerà un libro vero e proprio. Mi diverto così, a farmi del male…

E il più bel libro letto di sempre?

Bella domanda. Il titolo cambia, la mia opinione in merito varia spesso, direi una volta a settimana. Posso giocarmene tre? Delitto e castigo di Dostoevskij, Chiedi alla polvere di John Fante, Una questione privata di Beppe Fenoglio.

Pensi che la letteratura debba essere solo svago o credi che possa avere anche una funzione sociale? Quando scrivi ci pensi alla potenziale analisi “politica” (in senso lato) che i tuoi testi potrebbero fare del mondo?

Sicuramente la letteratura può avere anche una funzione sociale, perché a conti fatti tutto, nella vita, può avere funzione sociale. Adesso farò una cosa che mi piace poco, cioè userò una citazione, tra l’altro di un autore che conosco pochissimo, Mahfuz, egiziano, che andò a Stoccolma a ritirare il Nobel e disse una frase del tipo “vi domanderete come un uomo del Terzo mondo possa trovare la serenità di scrivere delle storie… Per fortuna l’arte dimora tra gli uomini felici come tra gli infelici e offre a entrambi, in misura uguale”, e sottolineo misura uguale, “un mezzo gradito per esprimere il proprio intimo”. Già questo mi sembra un ottimo motivo per ritenere socialmente importante il momento della narrazione. Personalmente no, non penso al peso politico della storia che sto raccontando, mi preoccupo solo di raccontarla nel miglior modo possibile, fedele ai personaggi, ai loro caratteri. Dopo, se tutto filerà liscio, la storia avrà in qualche modo una vita propria, capace magari di solleticare certe curiosità, certi dubbi.

In Sto da cani ci sono tre citazioni “nascoste”: Totò, Baricco e Bianciardi. Cosa ti lega (o ti allontana) da loro?

Bianciardi è un autore, direi piuttosto un cervello, che stimo molto. La vita agra è un libro bellissimo, in vantaggio sui tempi, attuale ed eternamente scomodo. Con Baricco, niente mi lega né mi allontana. Lo conosco poco, l’ho letto su una rivista mentre parlava di precariato e invitava i giovani a coglierne l’aspetto positivo, goliardico. Ho scritto una lettera dicendo che ci andasse lui, a fare il precario e a provare a divertirsi, magari quando chiedi il finanziamento per comprare un ferro da stiro e il commesso (magari precario come te) ti ride in faccia. La rivista ha pubblicato la mia lettera e il mio rapporto con Baricco finisce lì. È vero, nel mio romanzo è citato un suo titolo, ma sono sincero: me ne sono accorto solo a frase fatta, e non ho avuto il coraggio di toglierla. Totò, quand’è che lo cito? Davvero non mi viene in mente, non l’ho fatto apposta. Totò mi fa pensare a quanto può essere intelligente e geniale anche una risata popolare, popolana, lontana da ogni tipo di intellettualità. Credo che manchino diversi Totò al cinema e alla società italiana.

Questa che hai fatto una citazione involontaria,inconscia, di Totò non me l’aspettavo, ma quando un artista entra nelle vene di un popolo può succedere anche questo. Penso tu abbia visto Totò, Peppino e i fuorilegge in cui la mitica coppia simula il rapimento di Totò da parte della “banda del Torchio” per spillare soldi alla moglie tirchia. Poi alla fine verranno rapiti davvero. Tu hai ripreso proprio “la banda del Torchio”, anche se la tua è molto più spietata di quella di Totò. Passando ad altro… dimmi tre cose che non ti piacciono del mondo contemporaneo e tre cose che invece ti danno speranza.

Faccio fatica a sceglierne tre dal primo lotto, e a pescarne tre dal secondo… Ci provo. Non mi piace l’informazione (specie quella che si spaccia per progressista) che si assoggetta al potere. Non mi piacciono le logiche imposte dalle multinazionali, specie quelle farmaceutiche. Non mi è piaciuto per niente l’ultimo festival di Sanremo. Invece, mi dà speranza quello che sta succedendo in America latina, il continente desaparecido che riemerge. Mi dà speranza la presenza sempre più forte e incontrollabile delle donne nella società civile, nella politica eccetera. Mi dà speranza la bellezza che ogni tanto incontro in un libro, un disco, un’opera d’arte, una persona.

Chiudo parafrasando Sartre: Perchè scrivi? E per chi scrivi?

Scrivo per raccontare l’uomo, visto da un modesto ma unico punto di vista, perché lo sguardo di ognuno di noi è unico e confrontarsi fa crescere l’anima. Scrivo perché mi piace raccontare storie, e scrivo per chi, come me, ha pure voglia di starle ad ascoltare.

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