Uomo di conseguenza – Veraldi

Recensione pubblicata sul N.1 della rivista DELITTI DI CARTA (diretta da Renzo Cremante e Loriano Macchiavelli) uscita nel novembre 2003 e non più reperibile.

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Attilio Veraldi è uno dei più importanti giallisti italiani che, nel suo genere, ha fatto scuola (come sottolinea Massimo Carlotto nella sua introduzione). Cercherò quindi di documentare ogni affermazione di questa recensione con riferimenti al testo, per cercare di ridurre al minimo il rischio di dire cose fuori luogo. Ma andiamo per ordine.

Innanzitutto: di cosa parla il libro? Qual è la storia? Come ogni buon scrittore di gialli, Veraldi piega una fabula tutto sommato semplice alle esigenze della suspense e la struttura in un intreccio che, man mano che si procede nella lettura, diventa sempre più complesso. Il protagonista, Alessandro “Sasà” Iovine, è un commercialista deluso (“attività che mi aveva dato, e ancora continuava a darmi, così poche soddisfazioni” pag. 15) che si ritrova, suo malgrado, invischiato in una storia di traffico di quadri e di valuta. Un misterioso individuo (tale Aloisio Petrella) gli ha offerto di collaborare ad un apparentemente innocuo commercio di quadri con l’estero, di cui fa intravedere sicuri e copiosi guadagni. Iovine, dapprima scettico, alla fine accetta. Da questo momento in poi si susseguiranno omicidi e scandali, tutto sotto gli occhi del povero commercialista che salva ogni volta la vita per puro miracolo. Costretto dal precipitare degli eventi, Iovine si improvvisa investigatore ed entra in contatto con l’entourage di un miliardario, l’ingegner Jounod, in odore di corruzione e in affari con i vertici politico-economici nazionali. Anche da questo nuovo rapporto, Iovine spera di ricavare cospicui guadagni (viene assoldato dall’ingegnere per ritrovare il figlio scomparso, anch’esso coinvolto nel traffico di quadri e valuta), ma gli eventi gli sfuggono di mano e sarà costretto, alla fine, a rallegrarsi (poco in verità) di essere ancora vivo e di essere uscito da un circolo di viziosità sessuali, scandali e morti. Da quel non-investigatore che è, Iovine non risolve il caso che, per così dire, si risolve da solo con una serie di omicidi concatenati fra i vari protagonisti del losco affare quadri-valuta.

Ma che “tipo” è questo Iovine? Sì, perché per i personaggi di Velardi proprio di “tipi” bisogna parlare, un po’ come le maschere della commedia dell’arte: personaggi che esulano dalla loro singolarità per oggettivarsi in esempi di varie tipologie umane, caratteristiche di un determinato ambiente, quello della Napoli anni ’70. In questo, Uomo di conseguenza è un perfetto ibrido fra giallo e noir. Infatti, se il giallo predilige l’esame schietto dei fatti, la scoperta di un mistero e la sua risoluzione (quasi scientifica e documentata) nel finale; e se il noir pone l’accento sull’ambiente sociale e umano in cui fatti e misfatti si svolgono (senza ricercare necessariamente una risoluzione chiarificatrice finale) Veraldi opera una fusione tra questi generi offrendoci un “caso” di cui puntualmente alla fine ci svela tutti i misteri, e un affresco multicolore di un particolare ambiente sociale e umano. Ma ci domandavamo: che “tipo” è Iovine? Innanzitutto, come ho già accennato, è un detective-per-caso, a volte addirittura controvoglia (“Sedetti sfiduciato sul bordo del letto desiderando una sola cosa, non essere più nei miei panni” pag. 157). È un personaggio schietto, franco, che dice in faccia quello che pensa e spesso, contraddittoriamente, si nasconde dietro domande o affermazioni in cui lui per primo non crede. Non ha certo la stoffa dell’eroe che si sacrifica per raggiungere un superiore ideale di giustizia, anzi. È ben cosciente di come va il mondo, o perlomeno un certo mondo, dove i potenti hanno sempre ragione e pestargli i piedi equivale a suicidarsi. Per questo motivo nutre una certa antipatia nei confronti dei due commissari che gli ronzano continuamente intorno a causa della striscia di sangue che lo segue ovunque. Uno di loro, Venuto, è quello verso cui Iovine sviluppa la maggiore incomprensione proprio perché, al contrario di sé, è un idealista e sarebbe disposto a mandare in fumo tutta la sua carriera per provare a mandare in galera il super-potente ingegnere Jounod. A pag. 134 Iovine domanda sprezzante a Venuto: “A suo tempo non le insegnarono che il ricco non si tocca? È peccato, lo sa?” e definisce i suo slanci ideali come “paranoia” e “follia”; e a pag. 133 confessa: “ritenevo pazzo il mio commissario perché non avevo mai pensato che l’onestà potesse trionfare, almeno non alle nostre latitudini”. Non un eroe, dunque, ma una persona comunissima che, prima di tutto, cerca di portare a casa qualche vantaggio economico e di salvarsi la vita. A questo si accompagna un sarcasmo e una freschezza che si riverbera inevitabilmente sull’io narrante. L’ironia non gli manca mai, anche nelle situazioni drammatiche, e in ciò si può riconoscere un aspetto della sua “napoletanità”: il distacco, quasi irriverente ma necessario per sopravvivere, dalla drammaticità della vita. Proprio per questa volontà di tenersi fuori dai guai, collaborerà con la polizia solo alla fine, mantenendo comunque un giudizio poco lusinghiero dei due commissari che lo braccano per fargli dire quello che sa (arriverà a pensare: “i due erano davvero quel gatto e quella volpe che sentivo che erano” pag. 200). Dobbiamo perciò pensare che Iovine sia un mezzo delinquente che per fare due soldi è disposto a sporcarsi le mani con la malavita? Certamente no, piuttosto cerca di convivere con una realtà che sa di non poter debellare e che può tornare utile non avere per nemica; anche per questo non parla di Camorra ma di “Organizzazione Cittadina”.

Se Iovine è il “tipo” che occupa più spazio nella narrazione, un altro “tipo” appare solo alla fine del libro e per sole due scene ma è nientemeno colui che dà il titolo al libro: l’uomo di conseguenza. Donna Pereta (questo il nome con cui è conosciuto) è un pachidermico boss di quartiere dal volto umano (o perlomeno così lo vede Iovine). La sua incredibile stazza è pari alla sua fama e al rispetto che lo circonda perché tutti sanno che, se ce n’è bisogno e se non si è “sgarrato”, lui può dare una mano e aiutare nelle situazioni difficili. Perennemente circondato da un nugolo di questuanti in cerca di favori, è un boss old-style che ama la sua gente e punisce i prepotenti che vanno contro le regole non scritte di una criminalità dotata ancora di un “codice d’onore”; arriva persino a provare disprezzo verso la malavita dei ricchi e potenti tanto che, riferendosi al corrotto ingegnere Jounod, afferma a pag. 167: “Quello non è territorio mio. Troppi soldi e troppa schifezza”. Proprio a lui Iovine si rivolgerà per trovare l’uomo a cui dà la caccia per tutto il libro e proprio grazie a lui scamperà a un linciaggio.

Altri “tipi” sono i già menzionati commissari (Venuto, l’idealista, e Induno, lo scettico); il “Tuttofare” Lorusso che si inventa mille lavori per vivere, spesso in relazione pericolosa fra loro (informatore della polizia e collaboratore dei malavitosi); l’ingegnere Jounod, intoccabile nella sua potenza economica e politica; il giovane rampollo di Jounod, Ezio, vizioso e viziato; una serie di ragazze di facili costumi disposte a tutto pur di mantenersi le amicizie e gli amori dei ricchi e potenti.

Tutto un mondo viene quindi rappresentato da Veraldi (per approfondimenti al riguardo, rimando ancora all’ottima introduzione di Carlotto).

In questo quadro finora lusinghiero dell’opera di Veraldi si inseriscono però alcune piccole smagliature. Smagliature nella sceneggiatura (se mi si concede questo termine cinematografico) e smagliature nella psiche di alcuni personaggi. Per quanto riguarda le prime, all’inizio del libro troviamo Iovine davanti all’ambiguo Petrella che gli offre un’oscura collaborazione in un traffico di quadri. Iovine è giustamente sospettoso sia del personaggio che ha davanti sia dell’affare poco chiaro che gli si prospetta. Tuttavia all’improvviso, senza ben spiegare i motivi che portano a questa brusca decisione (fondamentale per tutta la vicenda), Iovine accetta l’incarico. Il lettore rimane un po’ disorientato e non capisce cosa abbia fatto cambiare idea al protagonista. Simmetricamente, alla fine del libro troviamo il protagonista ormai fuori da ogni “indagine”, avendo deciso di ritirarsi dalla collaborazione col Jounod (di cui doveva rintracciare il figlio) e avendo ritrovato Petrella, che aveva cercato per tutto il tempo. Ciò nonostante, inspiegabilmente, decide di andare ugualmente a casa del figlio di Jounod, sapendo che avrebbe potuto trovarlo armato e malintenzionato nei suoi confronti. Questo episodio offre l’opportunità a Veraldi di raccontare l’ultimo colpo di scena, ma sembra poggiarsi su una troppo fragile costruzione della trama che sembra ansiosa di correre verso la fine voluta dall’autore. Le altre due “smagliature” riguardano la decisione da parte dei due commissari di lasciare in mano a Iovine un quadro che era stato oggetto di indagine per tutta la vicenda: ma quando mai la polizia lascia ad un estraneo un reperto così importante solo perché “il caso è chiuso”? Dello stesso tipo l’altro episodio, quando Iovine, per ritrovare Petrella, ha un’illuminazione e si ricorda di Donna Pereta. L’uomo di conseguenza svolge qui il ruolo fondamentale di deus ex machina dipanando una matassa che stava diventando troppo complessa e pesante (anche per il lettore). Ma viene da chiedersi: com’è possibile che il signor Iovine, così calato nella realtà e nei “circuiti mentali” della sua Napoli, non abbia pensato prima a un personaggio di quel calibro, e che per di più vedeva ogni giorno al bar? Francamente l’idea dell’illuminazione improvvisa appare poco realistica. Infine una nota critica si può rivolgere anche verso l’eccessivo uso di situazioni scabrose e scandalose che Veraldi fa per costruire la sua trama. In fondo il sesso è un elemento fondamentale in molti noir, racconti d’azione o di avventura, ma passare dalla scoperta di amanti, a omosessuali inconfessabili e insospettabili, fino ad arrivare ad un incesto orgiastico mi sembra un climax che sa più di compiacimento verso il morboso che non di un ingrediente per rendere stuzzicante una narrazione.

Per finire alcune considerazioni sullo stile.

Nel suo La vita agra Luciano Bianciardi faceva dire ad una redattrice di una casa editrice che dava consigli ad un giovane traduttore:

[bisogna] scrivere qual è senza apostrofo, tranne che nei libri gialli, nei quali si può anche mettere l’apostrofo, perché tanto il lettore bada solo alla trama.

Fortunatamente Veraldi cura molto anche la forma e fin dalle prime pagine si capisce che la sua è una scrittura nitida, pulita, asciutta. C’è molta attenzione verso i particolari sia delle cose (“dalla finestra il sole avanzava fino a lambire i piedini restaurati della scrivania” pag. 15) che delle persone, ritratte con un eccezionale senso plastico (“me lo trovai davanti: impalato sulla soglia, la mano già quasi sul campanello in un gesto immobile” pag. 13; “i muscoli facciali li allentò tutti di botto, provocando un vero e proprio smottamento delle guance, che si frenarono in tempo ai lati della bocca, in due serie separate e corrispondenti di crepe” pag. 19). Tuttavia non si arriva mai a barocchismi o ampollose descrizioni; tutto rimane sempre dentro una lucida visione della realtà in cui le cose sono illuminate in modo netto e preciso. Mirabile, a tal proposito, la sequenza di pag. 90 in cui tre brevi capoversi racchiudono tre diversi atteggiamenti di tre diversi personaggi:

Quando fu su via Caracciolo, prima di svoltare e immettersi nel traffico, salutò agitando il braccio, senza voltarsi. Era sicura che fossi rimasto a guardarla.

Mi sorpresi a rispondere agitando anch’io la mano sollevata appena a metà.

“Scemo!” mi dissi subito dopo, a voce alta. E Fritz credette che l’avessi con lui: chinò il muso e lo girò per guardarmi dal basso in alto, con quegli occhi pieni ormai di umiltà.

Infine da notare l’uso che Veraldi fa di termini gergali o dialettali, quasi volesse far percepire al lettore quell’atmosfera partenopea che permea tutta la narrazione e che egli ben conosce. Faccio solo alcuni esempi: stuzzicosità (pag. 16), sciccheria (pag. 39), mignottino (pag. 81), fisionomista del salsiccio (pag. 147), gli riferii paro paro il mio colloquio (pag. 151), gli è venuto il coccolone (pag. 209).


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