Le Intermittenze di Samuele Zonali

Schermata«Cosa sono le amicizie, le conoscenze, i rapporti affettivi più profondi o gli incontri fortuiti? Intermittenze: eventi di discontinuità, intervalli dispersi nel tempo, che muovo le speranze o distruggono le aspettative di un individuo, seguendo una legge superiore che noi chiamiamo caso». Con queste parole viene introdotto l’ultimo libro di Samuele Zonali, scrittore monsummanese. Lo abbiamo intervistato per conoscerlo meglio.

Per chi non ti conosce: chi è Samuele Zonali e che rapporto ha con la scrittura?

Non voglio spendere tante parole su dettagli biografici di Samuele Zonali, perché oggi si parla troppo di individui e le orecchie dei lettori sono già oltremisura sature, figuriamoci poi di biografie. Di opere, quanto lavori completi, indipendenti e privi di un’eredità genitiva di natura individuale, invece non si parla quasi mai, mentre le opere figlie di padri famosi, le figlie di papà per così dire, spesso hanno rari pregi. Detto questo, il mio rapporto con la scrittura non può essere che di sudditanza, coerentemente a ciò che amo ripetere “l’autore scompare, resta l’opera”. Non è assunzione mia: ad arrivare a questa coerenza è stato Tarkovskij, regista dell’età sovietica assai prima che io nascessi. Una volta compreso il mezzo di espressione che più si confà alle proprie capacità e inclinazioni, l’autore non ha più bisogno di guardare a se stesso come soggetto che tramite la sua opera ha diritto di arricchirsi, beneficiare di fama: la sua massima soddisfazione è quella di vincere sulla sua mediocrità perché il proprio lavoro acquisisca un valore universale. Ogni tendenza sbilanciata verso il credo terreno e materialistico, getta ombra sulla sua opera e ne tradisce la sincerità. Nella ristrettezza di Samuele Zonali in quanto io pensante che risponde a queste domande: fin da piccolo, a grandi opere nelle quali m’imbattevo, corrispondevano momenti di autentica commozione e soddisfazione. E’ un bel credere, il pensare di poter creare con le proprie forze nel prossimo momenti di questo genere.

Hai finora pubblicato due libri: il primo, Cento racconti è in realtà un romanzo, ma costruito in modo tale da sembrare un novelliere. Il secondo, Intermittenze, è “uno strano romanzo”, come tu stesso lo definisci. In cosa si differenziano questi due libri e a che periodo della tua vita appartengono?

Inizio dal fondo di questa domanda, per il fatto che solo da poco sono riuscito a schematizzare abbastanza lucidamente il mio “percorso”. Cento racconti è l’ultimo romanzo di una prima, ben delimitata, fase della mia vita (ovviamente intendo vita nella scrittura). Questa prima fase va dagli albori di una riconoscibile necessità d’espressione, 1994/1996, fino all’acquisizione definitiva degli strumenti utili a ciò, 2006/2007, anno di stesura di Cento racconti. Il romanzo conclude una lunghissima epoca di apprendistato; mettiamola così: un ultimo esame per emanciparmi dal passato. Una pausa di tre anni fa da confine con una seconda fase di cui, le Intermittenze determinano una specie di prologo a ciò che ho sviluppato in questi anni e tuttora. Si tratta di un romanzo “strano”, ovvero in parte sperimentale, soprattutto per la costruzione, che contraddistingue per altro un metodo e una tendenza su cui ho lavorato moltissimo in questi ultimi tempi.

Nella prefazione di Intermittenze fai riferimento alla tua esperienza con il mondo editoriale. Come giudichi l’attuale panorama italiano, specie per un autore emergente?

Domanda crudele, ma d’altra parte inevitabile. Con ambizioni proprie della gioventù, fin dai tempi dei miei primissimi lavori, ho proposto il mio materiale all’attenzione dell’editoria. Perciò, per me non è mai valso quel classico status del “romanzo nel cassetto”: li ho sempre tenuti ben spolverati e alla luce del giorno, benché di debolezze e ingenuità ne annoverassero più di tanti altri. Per questa ragione credo di aver vissuto lungamente la trascendenza di un mondo basato sulla carta e per questo lento e qualche volta anche saggiamente accorto, a un mondo impulsivo e distratto, scandito dalle mail e poi dai messaggi sui social network. Mi resta però difficoltoso riassumere in poche righe la mia decennale visione. Se possa contare come rilettura di una evoluzione o involuzione dell’editoria, propongo l’estratto di alcuni miei contatti da scrittore con l’editoria attraverso gli anni:

2000 – Editore incontrato di persona: – No Zonali, lei è ancora immaturo e non possiamo pubblicarla. A risentirci.

2001 – Incontrato di persona – La storia c’è, ma il suo stile è tremendo. Buon lavoro.

2004 – Per lettera – Non ci interessa. Però siamo certi che troverà qualcuno interessato.

2005 – Per mail – E’ un ottimo lavoro ma non è adeguato alle nostre linee editoriali.

2005 – Per lettera – Interessati a pagamento (ho sintetizzato qui la risposta di pubblicazione con acquisto copie o amenità di moda in quei tempi).

2005 – Per lettera – Lei ha notevoli qualità e siamo certi che un giorno troverà l’editore giusto.

2007 – Per mail – Scusi il ritardo: interessante, ma non ha qualcosa di più mirato?

2010 – Per mail – Non siamo interessati al suo lavoro. Grazie per averci scelti.

2010 – Per mail – Non siamo interessati. Saluti.

2011 – Per mail – No. Graze! (con vero errore di ortografia)

2012-2015 – Silenzi. (da qui in poi nessuno emette alcun genere di risposta)

Fuori dalle mie esperienze, che più ne espongo più credo siano insufficienti a descrivere una circostanza globale, io penso che l’editoria si stia smarrendo nell’errore di voler dare al popolo lettore ciò che quest’ultimo più desidera, quando invece il popolo non desidera un bel niente ma è proprio lei, l’editoria, ad essere la nutrice di quel desiderio che nei lettori da un momento all’altro incomincia a crescere. Poi il discorso potrebbe essere esteso oltre al limitato campo editoriale, e questa risposta si espanderebbe oltremisura.

Sempre nella stessa prefazione, parli della libertà che oggi manca, non tanto come possibilità concessa da un sistema politico (benché sempre più a-democratico), quanto come incapacità di coglierla, soprattutto nei giovani. Mi ha ricordato una scena di Post office in cui Bukowski/Chinaski si ferma a osservare i suoi pappagalli che, davanti alla porta della gabbia aperta, esitano e sembrano non trovare il coraggio di fuggire.

Rintoccavano i gong della fine di un’era, negli anni in cui, anche se con toni più diretti e forse più efficaci, si ripeteva ciò intorno a cui da un paio di centinaia di anni il pensiero dell’uomo si lambiccava. Le ultime battaglie per la libertà culturale, una trentina d’anni fa erano schiamazzi per qualcosa di già ottenuto ma non ancora metabolizzato. E oggi viviamo finalmente consapevoli di un vero nuovo periodo, di una vera nuova epoca: chi più giovane di me, con ancor più certezza. Ma qua fuori, dove la spinta del passato ci ha portati, i riferimenti spesso mancano: ne mistifichiamo, e allora si rivelano, le nostre idee e assunzioni, poco longeve, effimere. Siamo orfani in un mondo totalmente libero e zeppo di opportunità. In dettaglio, l’autopubblicarsi: rappresenta una libertà ottenuta da decenni di progresso, che ci emancipa dal giogo culturale a stretto giro della casta editoriale, ma che di volta in volta appare vacua e priva di solidità, di valore. Ecco che allora l’autopubblicazione, questa grande libertà raggiunta, si trasforma in una gara di “libro più venduto”, “libro più letto”, “libro più cliccato”, “libro in ebook”, “libro vincitore di”, “libro online”, “libro forum”, “audiolibro”, “librovivo” eccetera. E i contenuti? Nella libertà di poter scrivere quello che ci pare, dal sesso più spinto alle perversioni più omicide, abbiamo perduto il perché dello scriverlo. Tornando all’esperienza di Chinaski e dei suoi pappagalli che citavi: abbiamo svolazzato, fuori dalla gabbia, con un impulso primordiale che dalle nostre ali è incancellabile, ma delle leggi all’esterno le nostre menti non comprendono granché. Le Intermittenze, a mio avviso, principalmente romanzo del presente per il presente, prova a restituire allo scrivere il suo intrinseco valore ancestrale che queste rivoluzioni culturali hanno ingenuamente cancellato assieme a tutto il resto.

Da qualche anno vivi a Empoli, ma sei cresciuto fra la Valdinievole e Pistoia. Che ricordo hai di questi luoghi, dal punto di vista della “vita culturale”?

Per la precisione, più Valdinievole che Pistoia. La Valdinievole è una pianura a carattere alluvionale che è stata lungamente predominio della zanzara, fin dai tempi antichi, poi di un contado abbastanza privo di tradizione nell’uso della terra e del mattone, infine schiava della scarpa e del suo rapido declino. Io l’ho conosciuta ai tempi della scarpa: ambiziosa di dominare in un momento largamente oltre gli sgoccioli, piantava sugli ultimi campi già incolti da una ventina d’anni i calzaturifici che oggi sono supermercati o asilo di extracomunitari. E la cultura, in questo contesto, non l’ho mai vista (se si può non considerare cultura la statua del Giusti in piazza a Monsummano). Pistoia, tuttora come al tempo in cui la frequentavo (ma ero così giovane che non so quale senso possano avere i ricordi ai quali adesso fatico ad appigliarmi), è una cittadina dalla mentalità molto chiusa e perciò di difficile comprensione anche per chi ne abita le vicinanze. Si ritrova fra le radici dell’appennino, assolata e luminosa ma non per questo vitale come Pisa o Firenze. Non sono mai riuscito ad entrare in contatto con lo strato culturale della città, tanto meno comprendere se ne abbia mai avuto uno. Ma privo di rancore, celebro la città della “giostra dell’orso”, come colei le cui porte mi ha spalancato quando mi urgeva affrancarmi dalle soffocanti pianure delle zanzare e delle scarpe.

Letture preferite di ieri e di oggi?

Manovrate dalla volontà di avere un sguardo sul presente personale ed indipendente, le mie letture sono da sempre dominate da scrittori non contemporanei, eccetto rari casi. Oltre a questo, ho sempre poco tempo e quando leggo non mi piace imbattermi in qualcosa di poco sotto l’interessante. Cercare, indagare, alla ricerca di qualcosa di buono nel contemporaneo, non fa per me: ci si imbatte spesso in qualcosa per la quale non valeva la pena perdere tempo: in questi frangenti l’insoddisfazione spesso mi paralizza persino negli intenti miei più verdi. Non ne conosco la ragione, in franchezza. Per questo, lascio che sia il tempo a sgrossare l’enorme mole di pubblicazioni. Inoltre non amo il largamente professato impoverimento della lingua e del soggetto in nome di un progresso linguistico che non è altro che necessità economica, diretta fornicazione tra tempi stretti e larghi consensi. Ciò fa di me un lettore principalmente di cari estinti ristampati, ma attualmente la mia libreria tiene buone centinaia di volumi che non ho ancora aperto e diciamo che per almeno nel breve periodo dovrei stare tranquillo. Per concludere, esulando da esempi massimi come le formicolanti Storie Erodotee che ho letto quest’anno o gli approfondimenti psicologici dei classici che ritrovo periodicamente, un bel capolavoro frainteso (ieri e oggi stesso) che ho letto ultimamente è Stoner di J. E. Williams. Scritto in tempi di un americanissimo boom, incompreso a causa di un americanissimo boom, adesso globalmente celebrato per le qualità positiviste che un’ingenuità moderna vuole a tutti i costi attribuirgli, è una bella lettura alle spese di un protagonista già modernissimo.


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