Intervista a Francesca Matteoni

1466310_328378010697875_3543905519451760838_nÈ fresca di stampa la raccolta Acquabuia della poetessa pistoiese Francesca Matteoni, di seguito l’intervista in cui lei stessa ce ne parla.

Dalla quarta di copertina:
«La poesia di Francesca Matteoni è un pieno di natura: alberi, bambini, animali, fantasmi di amanti e pietre, dalle quali sale il sussurro, ancora attivo, delle madri. Ma non ingannino i nomi veri di animali e piante: qui è natura che trasfigura in bestia, creatura umana, fiore e sangue che sporgono, a fiotti e a fenomeno carsico, dall’indistinto. Tutta questa materia espone sempre e comunque il suo rovescio fiabesco, ectoplasmatico, e chi si muove in essa ha raramente consistenza di creatura umana già formata, è idea preumana dell’uomo o narrazione dell’umano che si espande, a slancio o per crescita lenta, esponenziale, dal nucleo magico e onirico dell’infanzia.»

Ulteriori informazioni si possono trovare sul blog di Francesca.

È uscito da poco il tuo ultimo libro di poesie, Acquabuia (Aragno). Puoi parlare della poetica e delle tematiche principali di questa silloge?

Sono in difficoltà a fare la critica di me stessa, anche perché per fortuna i libri spesso sfuggono alla prima volontà di chi li scrive. Ad ogni modo, come si può intuire, è un libro dove l’acqua ha un ruolo importante. L’acqua dove si diviene, dove restano i morti insepolti (o morti troppo presto per essere davvero sepolti), dove si genera il vivo. È anche, per una parte significativa dell’opera, un’acqua geograficamente identificabile: dalle Limentre al canale della Manica. C’è una poesia di introduzione che è un coming out, con un io maschile che poi si ripresenta, mutato, in un’altra sezione. Si affacciano molti bambini e non sono buoni. Vi sono cinque sezioni che scandiscono il libro, alcune imparentate con la fiaba, altre coi boschi appenninici, con le gore e con la deriva del mare con tutto quello che si porta di struggimento, abbandono, taglio netto con ciò che resta a riva. L’acquabuia è ciò che si attraversa per diventare adulti, senza dimenticare il bambino. Per diventare dei bambini adulti. Recentemente Cristina Babino (poeta, traduttrice e critica marchigiana che da tempo vive all’estero) ha fatto una lettura molto bella, che mi ha commosso, delle cose che scrivo, dove si sofferma anche su questo libro.

La tua prima raccolta, Artico, è del 2005. Quanto è cambiato il tuo modo di fare poesia in quasi dieci anni, dal punto di vista dello stile e delle tematiche?

La risposta breve è che io mi limito a vivere, leggere e scrivere e, se si ha un nucleo di necessità che spinge a farlo, il libro che infine si viene componendo è sempre il solito. È quel luogo dove l’io scompare nel mondo per mezzo della sua immaginazione, del suo trauma e della sua fiducia. Ogni volta si torna in quello stesso luogo togliendosi qualche strato, dicendo con meno reticenza la propria verità. Per quanto riguarda lo stile, ho sempre alternato il ritmo della prosa a quello della metrica poetica – del verso che si spezza e dell’endecasillabo che resta il verso più facile per me. Ma ecco ha poco senso dividere stile da tematica: la scrittura si asciuga o si arricchisce in un certo modo a seconda di ciò che dice e spesso dice, malgrado le intenzioni dell’autore. E anche per questo esistono i critici e i lettori che garantiscono al testo la sua indispensabile indipendenza.

Scorrendo la tua bibliografia si nota un notevole incremento delle tue pubblicazioni negli ultimi due anni. È solo un caso, occasioni editoriali che si sono presentate, oppure è cresciuta la necessità di far sentire la tua voce poetica (e non solo) ad un pubblico non solo di intimi?

Occasioni che si sono presentate e tempi (miei o editoriali che siano stati) che da una parte si sono accelerati, dall’altra hanno ritardato: per cui mi sono trovata con due libri di poesia in un anno. Sul pubblico a cui arrivano le mie cose – non saprei chi sono gli intimi. Se sono coloro che stabiliscono una sintonia con ciò che scrivo, può benissimo capitare che non li incontri mai o raramente in qualche evento pubblico, cartolina, mail o commento in rete. Riguardo la necessità: la prima è quella che porta a scrivere e a chiedersi se ciò che si fa è davvero necessario o cestinabile. L’altra è quella di essere concreti e stabilire contatti con l’ambiente che ci circonda: prima di tutto per amore – non esiste che si scriva senza amare ciò che altri, anche nostri contemporanei, scrivono. Poi perché, a meno di non accontentarsi di cortili chiusi dove pavoneggiarsi e ritenersi bravi e belli, bisogna chiedersi lo stato di salute del campo in cui si opera, essere curiosi e sentirsi responsabili del proprio lavoro come dello stato generale dei lavori.

Quasi in contemporanea con Acquabuia è uscito il tuo saggio Il famiglio della strega. Sangue e stregoneria nell’Inghilterra moderna (Aras). Chi ti conosce sa del tuo amore per il folklore e le tradizioni inglesi, spesso presenti anche nelle tue poesie. Puoi raccontarci, nello specifico, la genesi e l’obiettivo di questo lavoro?

La genesi è molto semplice: è una parte, rielaborata in italiano, della mia tesi di dottorato sul tema del sangue nella storia moderna inglese. Quindi non esattamente folklore, sebbene io preferisca definirmi folklorista e non storica, e nemmeno passione, ma lavoro e ricerca – i processi ci sono stati, circa 80mila persone, se non di più, sono morte nell’Europa moderna per l’accusa di un crimine inesistente: il maleficio. L’opera va a incrementare il mio cv scientifico, che è indispensabile per chiunque voglia lavorare dentro le università o restare parte di un dibattito accademico internazionale. Di conseguenza anche l’editore scelto è principalmente attivo in pubblicazioni scientifiche. L’idea di tradurmi in italiano viene dal fatto che non avevo nessuna pubblicazione in questa lingua e che il tema, per ovvi motivi notissimo nella bibliografia di lingua inglese, è poco frequentato in quella italiana, ma di qualche rilevanza per chi si interessi alla storia dei processi per stregoneria europea, così come alla storia della medicina moderna.

In giro, a ben guardare, c’è un gran fervore di iniziative legate alla poesia: pubblicazioni, concorsi, gare poetiche ecc. Eppure nelle librerie si fa sempre fatica a trovare lo scaffale della poesia (quando c’è). A tuo parere, come mai si fatica ancora a far arrivare questo linguaggio al grande pubblico? È solo una questione economica (vende poco quindi ci si investe poco) oppure c’è un limite “antropologico” (la poesia richiede maggiore concentrazione, dedizione, uno scrutarsi dentro che molti hanno difficoltà a fare)?

La poesia non vende e questo è ciò che viene sempre detto. Io però sono un po’ stanca di rispondere a una simile questione: il problema nasce sui banchi di scuola – non si leggono libri di poesia. Non si pensa nemmeno alla semplice verità della loro esistenza. Per contro la poesia ha una dimensione orale che manca alla prosa, ed è per questo che aumenta il successo e la qualità di alcuni festival dove il confronto con il poeta che legge o dice le sue poesie è diretto. Penso all’esperienza de L’importanza di essere piccoli, festival appenninico ideato da Azzurra D’Agostino e Daria Balducelli e dall’Associazione Sassiscritti, che quest’anno ha scollinato in Toscana, al Castagno di Piteccio. Un festival unico che, in luoghi poco frequentati come sono i paesi e le località della montagna, porta i poeti e la musica d’autore. Durante quei giorni d’agosto si respira un’atmosfera di condivisione col pubblico e amore per la poesia che possono nascere solo dalla competenza, la dedizione e la serietà di chi organizza. Poi per esempio sempre la scorsa estate ho ideato un piccolo festival di poesie al Circolo Le Fornaci con poete da tutta Italia, che è andato molto bene, sia in fatto di partecipazione che di sentimento condiviso. Significa darsi da fare a gratis per qualcosa che si ama e si conosce e si pensa sia giusto diffondere, a differenza dei molti, troppi che per mestiere retribuito fanno gli operatori culturali da contratto. Ecco questo cambia le cose, non uno scaffale, visto che poi, chi la poesia la legge, sa anche come acquistarsela online. Inoltre, fedeli alla dimensione puramente artistica dell’atto poetico, sono nati e si affermano sempre di più progetti editoriali autonomi come Sartoria Utopia di Francesca Genti e Manuela Dago o la collana Isola curata da Mariagiorgia Ulbar, dove autori non affatto esordienti escono con libri realizzati a mano o accompagnati dalle illustrazioni di artisti. Libri, oggetti, mappe preziose. Questo con “ciò che vende” non succede. Non è secondo me un caso che siano donne le persone dietro a queste belle realtà, alla faccia di un ambiente pervicacemente maschilista come quello italiano o, peggio, ipocritamente sostenitore delle donne che scrivono, ma solo se lo fanno dentro uno stereotipo accettabile: l’angelo del focolare tutto figli e amor di madre; la ragazzina, pure se in là con gli anni, che scrive versi sospirosi; la mangiauomini; la perenne mestruata che scrive dal corpo (perché si sa, solo le donne hanno il corpo. Gli uomini sono esseri spirituali…).

Consiglia un poeta/poetessa a un’ipotetica persona che non abbia mai letto poesia o che affermi “a me la poesia non piace”.

Se non ha mai letto poesia, ma dice che non le piace, inutile consigliare. A chiunque sia curioso non posso consigliare un poeta su tutti, posso dire chi piace a me e perché, ma appunto il consiglio dipende da cosa questa persona cerca, che tipo di scrittura o mondi le interessano.


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